06/06/2016 11:46
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    Donne indiane pier low

    Esiste un altro male, un male buono che ti prende e non ti lascia più: si chiama Maldindia”: mosaico di racconti per avvicinarsi al Subcontinente e provare a comprenderne le sue ricchezze, diversità e contrasti.

    Tornare in India. Ancora una volta dopo tante volte.

    Come se l’India fosse qualcosa che si può lasciare.

    L’essere stato via è come aver vissuto in un tempo sospeso, un tempo-non tempo: perché una volta che hai l’India dentro non puoi più farne a meno». A scrivere queste parole è Pierpaolo Di Nardo, uno che l’India la conosce bene visto che ci ha vissuto e ha fatto oltre 60 viaggi da solo o accompagnando gruppi di viaggiatori (giusto dieci anni fa anche con duellanti – la versione 2.0 di duel – sulle tracce dei set di Bollywood).

    Oltre a essere l’autore di due guide sull’India (India del Nord: 330 milioni di dei e un popolo solo e India del Sud: nella terra degli dei, entrambe pubblicate per Polaris), Di Nardo è anche un raccontastorie e ha girato l’Italia con uno spettacolo che racconta il suo amore per l’India, attraverso foto, filmati, appunti, musiche.

    Le storie dello spettacolo teatrale sono adesso raccolte in un libro che si intitola Maldindia. Perché non puoi più farne a meno (Polaris, € 13). 

    Diviso in quattro parti: Real India, Metropolis, Paesaggi e L’India che verrà, offre spunti inediti per avvicinarsi a un mondo dalla storia millenaria, ricco di contrasti e diversità e fa entrare il lettore dentro un modo di vivere lontano anni luce da quello a cui siamo abituati, in un universo che affascina e segna in maniera indelebile (come ricordano anche le citazioni in apertura di alcuni capitoli, che vanno da Hermann Hesse a Alberto Moravia, a Giorgio Manganelli e naturalmente Pier Paolo Pasolini).

    Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo uno dei racconti di Maldindia, dal titolo L’elefante:

    C come confine, D come Distanza. E come Elefante…

    Sono lì, nella mia Ambassador-car gialla e nera, una specie di Fiat Millecento, e me ne vado in giro per l’India, nella calda torrida estate indiana di 45 gradi all’ombra, in questa città di quasi 20 milioni di abitanti col mio autista che doma il traffico.

    Sono lì, nella mia Ambassador-car gialla e nera e mi fermo al semaforo rosso.

    Bene: dovete sapere che in India ci sono pochi pochissimi semafori. Ma quando c’è, il semaforo, ed è rosso, può durare una vita. Una volta, giuro, a un semaforo rosso di Calcutta, sono rimasto fermo 25 minuti!

    La gente scendeva: chiudeva la macchina e andava a fare la spesa. Tornava e il semaforo? Sempre fermo: sempre rosso. Allora andava a trovare un amico, andava a prendere il tè, comprava il gelato ai bambini. Tornava… cambiava una gomma alla macchina… e il semaforo? Sempre fermo. Sempre rosso.

    E io sono nella mia Ambassador-car gialla e nera, e all’improvviso, con la coda dell’occhio sento avvicinarsi un’ombra enorme. Ma come? Siamo a maggio! Non c’è una nuvola in cielo. Mi volto da una parte: sole a picco. Mi volto dall’altra parte e… un elefante enorme ha appena accostato la mia Ambassador-car anche lui fermo al semaforo rosso.

    Io e l’elefante fermi al semaforo rosso.

    La macchina del tempo.

    In una frazione di secondo faccio un giro nella macchina del tempo. E mi ritrovo nella Mumbai del Medioevo, in quella dei Maharaja, in quella del Settecento. E mentre sono lì che cerco di dare un senso a questa esperienza folle, quasi mistica, un colpo di clacson mi risveglia. Faccio un salto sul sedile. Anche il mio autista si sveglia. E l’elefante è lì con quegli occhi enormi che ci guarda come a dire: «E allora? È scattato il verde! Andiamo?».

    Il mio autista riparte, sgasando, e l’elefante, anche lui col suo passo flemmatico, eterno, col suo motore primitivo, si rimette in viaggio.

    maldindia

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